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mercoledì, Ottobre 15, 2025

Tor des Glaciers, la montagna che insegna a superare i propri limiti

Tor des Glaciers 450 2025 Lago San Grato
(Photo credit Nicolò Matteucci)

La montagna come laboratorio di resilienza: lo studio che svela come gli ultra-trailer imparano ad affrontare le difficoltà

Una ricerca condotta dalle Università di Verona, Trento, Cattolica e Padova analizza il comportamento mentale dei runner impegnati nel Tor des Glaciers. La fatica estrema diventa una palestra di consapevolezza e adattamento.

Quattrocentocinquanta chilometri, trentaduemila metri di dislivello positivo, cinque notti quasi insonni. Il Tor des Glaciers, versione più lunga e aspra del Tor des Géants, è una sfida ai limiti della resistenza umana. Un viaggio attraverso le Alpi valdostane che non misura solo la potenza delle gambe, ma soprattutto la tenuta della mente. È qui, in questo contesto estremo, che un gruppo di ricercatori italiani ha deciso di indagare come gli atleti affrontano e gestiscono la difficoltà, trasformandola in un’esperienza di crescita.

Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica internazionale PLOS One, è frutto della collaborazione tra il Centro di ricerca universitario di Verona e Trento (CERISM), l’Università Cattolica di Milano e l’Università di Padova, con un team composto da Pietro Trabucchi, Barbara Pellegrini, Aldo Savoldelli, Gianandrea Giacoma, Ilaria Vergine, Carlo Galimberti, Sara Garofalo e Federico Schena. L’obiettivo: comprendere se e come gli atleti di ultra-trail possano “apprendere” dalle proprie esperienze e diventare più efficaci nel fronteggiare lo stress.

Quando la fatica diventa conoscenza

Il Tor des Glaciers è stato scelto come contesto ideale per la ricerca. Con i suoi 450 chilometri, 32.000 metri di dislivello positivo e diversi passi oltre i 3.000 metri, rappresenta un laboratorio naturale dove osservare la mente in condizioni di pressione estrema. La gara, priva di “balise” – le tradizionali bandierine di segnalazione – costringe i concorrenti a orientarsi in autonomia, affrontando non solo la fatica, ma anche la solitudine, l’incertezza e la paura di sbagliare strada.

Per i ricercatori, questo scenario è perfetto per studiare le strategie di coping, cioè le modalità con cui ciascun individuo affronta e gestisce le difficoltà. Le interviste realizzate con atleti e specialisti hanno permesso di costruire una mappa dettagliata dei principali stressor – privazione di sonno, dolore, calo cognitivo, crisi motivazionale – e delle risposte più o meno efficaci messe in atto per superarli.

Chi impara, chi si blocca

I risultati dello studio mostrano che la capacità di reagire alle difficoltà non è una dote innata, ma una competenza che si sviluppa nel tempo. Gli atleti più esperti, spiegano gli autori, riescono a trasformare l’esperienza in apprendimento, elaborando strategie sempre più funzionali: ascolto del corpo, gestione flessibile del ritmo, accettazione del dolore, pianificazione delle pause, e una costante consapevolezza dei propri limiti.

Chi invece non riesce a imparare tende a cadere in modelli disfunzionali: lamentarsi, cercare alibi, aspettare che la crisi passi da sola, o addirittura rinunciare. In altre parole, la differenza non sta tanto nello stimolo – la fatica, il freddo, la fame – quanto nella risposta che ognuno sa costruire nel tempo.

Flessibilità e consapevolezza: la strategia vincente

La strategia più citata dagli atleti intervistati è stata definita “flessibilità e consapevolezza nella gestione di ritmo, sonno e alimentazione”. Significa imparare a riconoscere i segnali del corpo e adattarsi di conseguenza: rallentare quando serve, ma anche saper accelerare; riposare nel momento giusto; trovare un equilibrio tra il bisogno di energia e il naturale rifiuto del cibo dovuto alla fatica.

Nel contesto dell’ultra-trail, dove schemi rigidi possono condurre al collasso, la capacità di leggere se stessi diventa un vero strumento di sopravvivenza. La lucidità, più ancora della forza, è ciò che distingue chi arriva in fondo da chi si ferma. E questa stessa lucidità, spiegano i ricercatori, può tradursi in un vantaggio anche nella vita quotidiana, perché abitua a riconoscere e gestire le proprie reazioni di fronte alle difficoltà.

Il valore universale della montagna

Attraverso un’analisi tematica avanzata e la codifica statistica delle interviste (Fleiss Kappa 0.73, a conferma della solidità del modello), la ricerca ha messo in luce come gli ultra-runner che completano oltre metà della gara utilizzino in larga misura strategie “funzionali”.
Il dato non sorprende: chi affronta la montagna più volte impara, progressivamente, a dialogare con il proprio limite invece di combatterlo.

“Molti atleti sviluppano nel tempo una vera competenza nel gestire la difficoltà — scrivono gli autori — e questa competenza si riflette nella loro vita di tutti i giorni, rendendoli più capaci di affrontare anche le sfide non sportive.”

In questo senso, la montagna diventa un luogo educativo. Non un’arena per superuomini, ma un laboratorio di umanità, dove ogni ostacolo — un passo innevato, una notte senza sonno, una crisi di freddo — è un esercizio di consapevolezza. Per qualcuno, correre sulle creste del Tor des Glaciers significa semplicemente finire una gara. Per altri, significa imparare a vivere.

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