Pepi Merisio ci ha lasciato a 90 anni. Come Gianni Berengo Gardin, Robert Capa, Hery Cartier Bresson, Sebastiao Salgado, Ferdinando Scianna, anche Merisio ha attraversato le decadi del dopoguerra (anni 50, 60, 70) in cui sono stati protagonisti della transizione tra la grande fotografia in bianco e nero e lāuso dominante e quasi obbligatorio del colore.
I servizi e i reportage in bianco e nero segnano, confrontati con le immagini a colori che ci āaffliggonoā costantemente, il tempo storico del ricordo, della memoria, della nostalgia di una etĆ antica e idealizzata, dellāinnocenza perduta, della frugalitĆ e durezza della vita dei nonni e dei bisnonni. E ci riportano in una natura āimmacolataā, selvaggia e al tempo stesso accogliente, per i nostri avi dai volti scarni, piagati, duri, schivi e fieri: mitici. Solo una fotografia in bianco e nero riesce a mostrarci i veri messaggi con cui la neve e la montagna continuano ad ammaliarci.
Lettera a Pepi Merisio
di Cristian Riva
Carissimo Maestro,
La notizia della tua morte spezza la monotonia di questo periodo sospeso nel quale la nostra amata Bergamo fatica a trovare la giusta via per ripartire ed uscire da questa terribile pandemia che duramente lāha colpita. Forse ci troviamo di fronte ad una svolta, ad un cambiamento epocale, come quello che accuratamente hai documentato nei tuoi reportage sullāabbandono delle campagne bergamasche nel bel mezzo di un boom economico che, certo, porterĆ maggior ricchezza e benessere ma lascerĆ alle sue spalle un bagaglio emozionale non indifferente.
Ć proprio attraverso la tua fotografia, in particolare quella in bianco e nero, che noi spettatori possiamo oggi conoscere, magari con un poā di amarezza e nostalgia, la bellezza di quel tempo passato, la genuinitĆ e la semplicitĆ della gente dāallora, il faticoso lavoro nei campi e nelle filande, le infinite campagne bergamasche e le cascine dove ragazzini spensierati giocavano nei cortili di casa o nel campetto del paese.
SƬ, proprio il gioco, quellāesercizio che a ricordarlo intimamente oggi un poā attempato mi fa immediatamente tornare bambino, nel periodo dellāinfanzia e della prima giovinezza. Ć proprio fra questa serie di tue fotografie dedicate al gioco, quelle dove si vedono ragazzi che giocano allāoratorio, si rincorrono per strada o gareggiano con le slitte, che ne scelgo una alla quale sono particolarmente affezionato.
Quella nella quale si vedono due ragazzini che, nellāimmensa piazza di Campo San Polo a Venezia, giocano alla cavallina. Ć una fotografia che mi riporta indietro di parecchi anni, quando anchāio, allora ragazzino, mi ritrovavo con gli amici nella piazza del paese e con loro giocavo alla cavallina. Che bei tempi e che fortuna poterli ricordare attraverso una ābella fotografiaā!
Non scopro nessun segreto dicendo che una ābella fotografiaā deve semplicemente emozionare ma certamente questo ĆØ un tuo insegnamento, del quale cercherĆ² di far tesoro. Grazie per avermi sempre emozionato.